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Phil Galfond e la paura dei solver: “L’ho superata con il mental coach”

Se vi chiedessimo una lista dei 10 migliori giocatori del mondo, con una buona probabilità tra quei nomi comparirebbe Phil Galfond.

È superfluo elencare tutti i risultati che ha ottenuto in carriera, dai nosebleed degli anni d’oro alle Galfond Challenge, ma quello che forse non sapevate è che anche lui ha passato dei momenti di insicurezza, dove dubitava della sua effettiva bravura.

Quando? Beh, quando sono arrivati i primi solver, che Phil temeva essere un mezzo con cui chiunque avrebbe potuto superarlo. Ecco la sua storia.

I primi tempi dei solver

“I primi solver erano per Texas Hold’Em, e io che sono un giocatore principalmente di Omaha non li ho considerati. Giocando ogni tanto a NLHE, per esempio alle WSOP, notavo che la gente giocava in maniera un po’ diversa, e cercavo di capire cosa stessero facendo. Guardavo già qualche video di gente che lavora con i solver, conoscevo le parole chiave e le cose a cui pensavano, ma non le avevo mai studiate di persona.

Poi sono usciti i solver PLO, e io continuavo a non volerli usare per varie ragioni, principalmente perché i primi non erano molto user friendly, ma comunque ero confident di poter continuare a giocare e vincere, e in effetti ci riuscivo.

Il timore di non essere più il migliore

Poi ho cominciato a giocare molto meno per i miei altri business, un paio d’anni mi ci sono dedicato full time, e nel frattempo i solver PLO stavano migliorando e la gente stava capendo sempre di più.

Ho cominciato a sentirmi insicuro, anche se è una parola grossa. Mi sentivo in grado di capire cosa stessero facendo i miei avversari e trovare una contro-strategia, ma qualcuno poteva dirmi: “Phil in realtà stai sbagliando, c’è una risposta a questa giocata, e la risposta è questa.” e io non stavo studiando queste cose.

Forse è un motivo per cui mi sono dedicato così tanto agli altri business. Mi sentivo un po’ disilluso, avevo l’impressione che il poker stesse diventando un gioco di risposte giuste e sbagliate, e che le skill che mi rendevano forte un tempo non sarebbero più servite.

La nuova skill era la capacità di memorizzare, e io non sono mai stato bravo a scuola.

Il mental coach e la decisione di provarci

È stato poco dopo che ho deciso di cominciare la Galfond Challenge e tornare a giocare in maniera davvero seria, contro avversari molto forti, ed ero molto agitato al riguardo.

Non riuscivo a decidermi a farlo finché non ho lavorato con il mental coach e ipnoterapeuta Elliot Roe.

Mi ha aiutato a spacchettare la paura che avevo verso lo studio con i solver. Sono stato un top player per molto tempo. Cosa sarebbe successo se avessi provato di nuovo, studiato con i solver e avessi scoperto che il mio skill set non funziona nella nuova era?

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Il programma mentale negativo

Mi ha spiegato che è una cosa tipica, la chiama “programma mentale negativo“. Usa questa metafora, il corpo e la mente sono un sistema operativo, e nei primi anni installi dei programmi per proteggerti da qualcosa di quel momento, ma poi li abbiamo ancora 20, 30 anni dopo e non ci servono più, anzi ci danneggiano.

Il mio si chiama programma “troppo intelligente per provare”. Alle elementari ero un passo avanti agli altri, non dovevo impegnarmi per ottenere ottimi voti, tutto facile. Non ho mai sviluppato abitudini di studio e tutti mi dicevano che ero intelligente.

Poi le cose tra medie e superiori si sono fatte più difficili, non ottenevo tutto senza sforzi. Quello che mi è successo è che la realtà che mi ero creato era: sono molto intelligente, se dovessi mettermi d’impegno e non essere comunque al livello degli altri scoprirei che non sono intelligente come credevo.

Proteggevo il mio ego e la mia identità non mettendomi d’impegno: “Ho molto talento, semplicemente non ci provo abbastanza, ecco perché non sto andando benissimo. Se lo facessi probabilmente sarei migliore di tutti.”

La stessa cosa mi è successa nel poker. Ero forte, poi sono stato superato da chi studiava con i solver, e avevo paura di scoprire che se ci avessi provato non sarei stato all’altezza.

Elliot mi ha fatto capire che non c’era niente di male nel provare e fallire, e se avessi provato e avessi avuto meno successo di prima, sarebbe stata comunque una situazione migliore di quella attuale.

Quindi ci ho provato. Ho studiato con i solver, ho giocato le challenge, ho avuto successo, e soprattutto ho scoperto che le skill che erano utili nell’era pre-solver, lo sono ancora in quella post-solver.”

…e il perché ve lo spiegheremo nella prossima puntata!

Scrivo di poker da 10 anni, praticamente è l’unica cosa che ho fatto. Ho passato più tempo effettivo in un casinò che a casa e nonostante questo non riesco a battere il NL10. Spero di scrivere meglio di come gioco.
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