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Gianluca Gotto, dal poker al successo con blog e libri: “Vivo viaggiando, questo mondo mi ha insegnato tanto”

Gianluca Gotto

Torinese, oggi quasi trentenne, Gianluca è autore di due libri di successo che partono da una totale assenza di “spinte” mediatiche, se non quelle che fanno capo ad un tam-tam di una comunità quasi invisibile che fa della voglia di Libertà (occhio, qui parliamo di ogni forma di Libertà, non certo solo quella terrena), un mantra dal quale non è possibile staccarsi.

C’è chi ci riesce appieno e c’è chi invece non ha il coraggio di fare quei passi decisivi accontentandosi di camminare sulle lettere dei due libri di Gianluca Gotto, “Le coordinate della felicità” e “Come una notte a Bali”.

Ciao Gianluca e grazie per questo incontro, seppur virtuale.

Intanto mi piacerebbe subito togliermi il dente rispetto alla piccola prefazione durante la quale ho cercato, probabilmente senza successo, di inquadrarti all’interno della definizione che tu stesso dai di te. Cosa c’è sotto l’infinito ombrello di un affascinante connubio di due parole come “nomade digitale”?

Credo fortemente nella semplicità, quindi vorrei partire dalla definizione più semplice possibile di “nomade digitale”: si tratta di una persona che sfrutta la possibilità di lavorare in remoto per poter viaggiare per lunghi periodi, se non addirittura vivere viaggiando. Io nello specifico sono un web writer: per anni ho scritto articoli per siti web (tra cui Assopoker) mentre giravo per il mondo.

So che molti leggendo queste parole penseranno che si tratti di qualcosa di troppo strano per essere vero o per non avere un’altra faccia della medaglia, ma se questa reazione è così comune è solo perché tutti noi siamo cresciuti, bene o male, con la stessa idea di lavoro. Il lavoro ci è sempre stato mostrato come quell’attività che ti impone di passare otto ore al giorno nello stesso posto, cinque giorni su sette (se ti va bene), e a essere pure grato di “far guadagnare soldi a qualcun altro”, come diceva Bukowski. Ma anche senza scomodare uno dei miei scrittori preferiti, la visione del lavoro in Italia è quella di fantozziana memoria: un luogo triste e asettico, dove regna l’indifferenza e tu non conti nulla, dove ti rechi per quarant’anni della tua vita per guadagnare appena appena per sopravvivere.

Ecco, andando oltre alla definizione semplicistica, un “nomade digitale” è una persona che si è ribellata ai rigidi schemi del lavoro tradizionale e ha deciso di riprendere in mano il proprio tempo e la propria vita. È un movimento globale, in Italia siamo ancora molto indietro ma pian piano ci stiamo arrivando, anche grazie a testimonianze come la mia. Con il mio primo libro “Le coordinate della felicità” ho avuto modo di far conoscere questo stile di vita alternativo a tante persone ed è un grande piacere vedere che molti di loro provano a trasformare  le loro competenze e/o le loro passioni in un lavoro da svolgere in remoto.

Chiaramente non è facile riuscirci, ma troppo spesso si considera ciò che è difficile come impossibile. Non lo è e la mia storia lo dimostra: senza laurea, senza conoscenze, senza sapere nulla di questo mondo, per anni mi sono mantenuto mentre giravo per il sud-est asiatico scrivendo articoli sul… poker! E poi ho aperto un blog con la mia compagna Claudia e quel blog mi ha permesso di pubblicare due libri che hanno avuto un ottimo riscontro, uno autopubblicato su Amazon e uno con Mondadori. Sono convinto che se vuoi davvero qualcosa, un modo lo trovi sempre.

Oggi le professioni più comuni tra i nomadi digitali sono il programmatore, il web writer o copywriter (come nel mio caso), il graphic designer, il social media manager, l’assistente virtuale, il blogger (o l’influencer o chiunque riesca a monetizzare il proprio seguito online), il marketer (chi guadagna attraverso affiliazioni sui siti web e app), il traduttore, il video-maker (l’editing video è molto richiesto tra i lavori in remoto). Tutti lavori che non richiedono la presenza fissa in un ufficio, specialmente se si è freelance. In realtà, comunque, non ci sono limiti: se il tuo lavoro è “digitalizzabile” puoi diventare un nomade digitale. Credo che sia proprio questa libertà, che manca totalmente nel mondo del lavoro tradizionale, a rendere molto affascinante questo percorso di vita che richiede grandi sforzi ma porta anche a grandi ricompense in termini di qualità della vita“.

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Nel tuo primo libro racconti il momento esatto in cui ti avvicini al poker, utilizzando un linguaggio che può creare interesse anche verso le persone che meno maneggiano l’attrezzo. Qui hai la possibilità di parlare a una platea un po’ più competente. Cosa è cambiato da quel ragazzo che osservava Peter a quello che poi ha cominciato a scrivere di poker e, soprattutto, giocarlo?

“Conoscevo già il poker, perché tra il 2010 e il 2012 credo fosse impossibile non sentirne parlare in Italia. La scintilla è scoccata però quando ero dall’altra parte del mondo. Mi ero trasferito in Australia per cercare di trovare la mia strada e capire cosa fare della mia vita. Poi un giorno uno dei miei coinquilini (vivevo a Perth insieme alla mia ragazza e altri due italiani) mi portò a conoscere un suo amico che preparava i panini in un fast food. Niente di speciale, apparentemente, ma lui continuava a dirmi: “Stasera ti faccio vedere cosa fa davvero Peter nella vita”. E quella sera mi portò al casinò di Perth. Lì scoprii che quel ragazzo polacco era un giocatore professionista di poker, un cashgamer per la precisione. Vederlo all’opera mi catturò, non solo perché mi resi conto che si guadagnava davvero da vivere in quel modo (scoprii poi che oltre a giocare live era anche stato uno dei primi Supernova Elite polacchi su Pokerstars) ma anche perché ebbi l’impressione che quello fosse più di un gioco. E infatti negli anni successivi avrei poi sviluppato una convinzione: il poker è una delle metafore più azzeccate della vita. Al tavolo, come nella vita, c’è chi bluffa troppo e chi non bluffa mai, chi viene scoppiato di continuo e chi runna in modo scandaloso, chi è troppo passivo e chi mette sempre di mezzo l’ego, chi aspetta le carte giuste e chi prova a crearsi la situazione giusta, chi non accetta che la vita e il gioco non sempre premiano il migliore e chi sa che non conta il risultato, ma l’impegno. Il poker non è solo un gioco che unisce le persone (e di questi tempi ben poche attività ci riescono, la maggior parte le isola), è anche una scuola. Ho imparato davvero tante preziose lezioni di vita sedendomi ai tavoli, online e in giro per il mondo”.

Qual è la lezione più importante che hai appreso?

“Non puoi aspettare una coppia di Assi per tutta la vita o rischi di finire drawing dead. La vita va vissuta qui e ora, cercando di ottenere il massimo dalle carte che ti ritrovi in mano. Vivere inseguendo il nuts significa permettere al caso di decidere che direzione prenderà la tua esistenza; chi non rischia mai può dire agli altri di non aver mai fallito, ma difficilmente può raccontare a se stesso di aver vinto”.

Come si è sviluppata negli anni la tua passione per il poker e, visto che in giro si dice che la brace non smette mai di ardere, quanto è forte la tua in questo momento? 

“Da quel primo incontro nel casinò australiano ci sono state tante mani giocate online. Per un paio di anni sono riuscito a vincere con discreta costanza, ma non parliamo di cifre che ti cambiano la vita. Diciamo che però quei 5.000-7.000 euro all’anno mi hanno aiutato molto nel periodo tra il ritorno dall’Australia e la ripartenza per il Canada. A Vancouver, poi, mi sono reso conto che la mia “carriera” di grinder era finita (diverse room su cui giocavo con rakeback irreale avevano chiuso nel frattempo). In primis perché il livello si era alzato e non mi bastava più fare il nitty per portare a casa la pagnotta (ride, ndr) e poi perché non era ciò che volevo fare nella vita. Nello stesso periodo, però, iniziai ad apprezzare molto l’esperienza del poker live. A Vancouver c’è una poker room (quella del casinò Edgewater) con un livello molto alto popolata da tante persone interessanti. Ricordo che giocare là era molto divertente e spesso io e la mia ragazza uscivamo alla sera con altri regular della room, tra cui un paio di terribili ragazze asiatiche che non auguro a nessuno di trovare al tavolo.

Da allora, ogni volta che viaggio da qualche parte cerco di visitare la poker room locale. Negli anni, oltre all’Australia e al Canada, ho giocato in molti casinò del mondo, soprattutto in Asia: Vietnam, Cambogia, Singapore e soprattutto Macao. A Macao ho vissuto una serata indimenticabile a un tavolo di soli cinesi e ho anche avuto modo di vedere (in lontananza, ovviamente) uno dei tavoli high stakes di cui tanto avevo scritto per Assopoker. A Phnom Penh, invece, ho vissuto una brutta esperienza in un circolo in cui avrei fatto meglio a non entrare. In compenso, a Sihanoukville, sulla costa della Cambogia, ci sono partite davvero soft e divertenti. Ho così tante storie di poker che potrei scriverci un altro libro!”

Questa me la devi concedere, penso sia di gran lunga la domanda che più hai sentito da qualche anno a questa parte, ma visto che “verba volant, scripta manent”, anche i lettori di Assopoker vogliono tornare a leggere con una certa frequenza il motivo che spinge un ragazzo di 20 anni a prendere uno zaino sulle spalle e cominciare un percorso a forma di punto interrogativo. 

“È curioso che tu me lo chieda, perché proprio ieri sera stavo ascoltando una recente intervista a Tom Dwan in cui gli veniva chiesto come fosse da ragazzino, a scuola. Lui ha detto qualcosa come: “Io sono pronto ad accettare le regole e ad adeguarmi ad esse ma devo capire perché. Se non capisco perché devo fare qualcosa, se nessuno mi sa spiegare razionalmente perché è giusto, allora non lo accetto”.

Ecco, io la vedo come lui. Fresco di diploma, tutti mi dicevano che la strada giusta per me era prendere una laurea prestigiosa e poi mettermi alla ricerca di un lavoro a tempo indeterminato. Poi avevano immaginato per me una casa con il mutuo e un’intera vita trascorsa nello stesso posto, a fare le stesse cose e a vedere le stesse persone. Io avevo vent’anni e pensavo che fosse una follia. Non avevo nemmeno provato quella vita eppure già la vedevo incompatibile con me. Così decisi di esplorare qualche alternativa prima di buttarmi su quel percorso solo perché considerato “giusto” e “normale” dalla società in cui viviamo. Pensavo che forse avrei trovato la mia realizzazione lontano da quei rigidi schemi e così è stato. Non posso che essere estremamente grato a me stesso per aver comprato quel biglietto di sola andata per l’Australia che ha rappresentato l’inizio di tutto”.

Sul tuo blog, curatissimo e pieno di consigli, Mangia Vivi Viaggia, parli di te al passato come un ragazzo triste e terrorizzato dalle prospettive che la vita e, cito, “dal futuro scontato e rispettabile che vedevo davanti a me”. Il concetto è chiaro, ma come consideri le persone che invece credono che la felicità sia quella che non hai visto tu?

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“La felicità è qualcosa di estremamente soggettivo. Nel mio primo libro “Le coordinate della felicità” scrivo proprio che le mie parole non offrono risposte ma aiutano a porsi le giuste domande, perché in realtà nessuno può scrivere un manuale per la felicità: per me ha una forma, per te ne ha un’altra, per un’altra persona ha ancora una forma diversa. Non ci sono regole valide per chiunque. Io non giudico assolutamente chi ha una vita tradizionale, penso che se hai trovato la tua realizzazione personale hai vinto, indipendentemente da chi sei e cosa fai. Ho degli amici a Torino che odierebbero la mia vita “nomade” ed è giusto che sia così: la bellezza del mondo è proprio nelle sfumature, nelle differenze. Quello che cerco di fare attraverso il mio blog è mostrare che le alternative esistono. Perché un conto è dire “sono felice della mia vita” un altro conto è dire “non ho altre possibilità quindi vado avanti così e basta”.  È tragica l’arrendevolezza con cui milioni di persone prendono la vita nel nostro Occidente pieno di comfort e possibilità. Se sei nato in questa parte del mondo e non hai dovuto subire grandi drammi personali, cambiare è sempre possibile. Magari grazie a un grande viaggio, magari nella tua quotidianità. È questo il mio messaggio”.

Dal punto di vista prettamente tecnico e logistico stai parlando con una persona che ha sempre detestato perfino il picnic di Pasquetta. Se mi vuoi bene non invitarmi al campeggio. So che sto estremizzando, ma dal mio piccolo vedo la tua vita passata, alcune volte, a dormire sopra un materasso di foglie, vicino ad un lago dove farai un bagno la mattina presto, con le ossa al mattino che lamentano umidità e dolore. Convinci le persone come me che tutto questo è invece fantastico. O meglio, se non vuoi convincermi, dimmi perché ti fa felice.

Come detto nella risposta precedente, se la tua felicità ha una forma non ho alcuna intenzione di adattarla alla mia 🙂 però posso dire questo: più perdiamo contatto con il Tutto di cui ogni cosa fa parte e più ci condanniamo alla depressione. Abbiamo inventato concetti come “inizio” e “fine” quando in Natura nulla ha inizio e nulla ha fine. Ci siamo trincerati nelle convinzioni del nostro ego, nel nostro considerarci più importanti di tutto il resto, nei nostri desideri puramente materiali. Così abbiamo perso contatto con il mondo che ci circonda e di cui facciamo parte. Non è assolutamente un caso che in uno dei paesi con più depressi al mondo (il Giappone) venga prescritta una passeggiata in un bosco incontaminato, senza smartphone in tasca, senza distrazioni, per ritrovare un senso alla vita. Quel contatto con la Terra, lontana dal cemento e dalle mille connessioni che caratterizzano la nostra vita, ti mostra che non hai bisogno di molto per stare bene, che a volte devi solo capire da dove vieni e dove andrai. Per me è una sorta di balsamo che lenisce molti malesseri tipici dell’uomo”.

Che cosa vuol dire credere in un Dio per Gianluca Gotto? Esiste questo passaggio nella tua vita?

“Non mi sento in grado di comprendere il concetto di Dio, è qualcosa a cui penso poco perché non credo di avere le capacità di elaborare pensieri utili a trovare risposte. Una volta una mia amica mi disse che gli agnostici sono atei senza palle: forse ha ragione ma io non posso che definirmi così! Ciononostante, credo fortemente in tre cose: nella Natura, nell’Amore (nella sua connotazione più generale) e in me stesso.

L’arte, la musica, la scrittura, la poesia, mi sembrano solo alcune delle attività che più fanno capolino nella tua esistenza. Come si conciliano esse, con la tua parte spirituale, visto che, fin da quando si hanno notizie dell’uomo, hanno tutti i crismi della praticità?

“Eckhart Tolle ha scritto un libro interessante che si chiama “Il potere di Adesso” nel quale sostiene che tutte le attività più importanti per l’essere umano (da ogni processo artistico, al sesso, alla reazione di fronte a un pericolo imprevisto) implicano una presenza totale nel “qui e ora”. Questa è la forma di spiritualità più accessibile ed è forse anche la più importante: riuscire a vivere a pieno il momento presente senza consentire alla mente di vagare verso il passato o verso il futuro. Curiosamente, questa pratica, che alcuni chiamano Mindfulness, l’ho scoperta proprio scrivendo di poker: negli anni ho ascoltato tante interviste di Liv Boeree, Fedor Holz e Andrew “LuckyChewy” Lichtenberger in cui parlavano di quanto la meditazione li avessi aiutati nella vita e al tavolo. L’ho provata, l’ho approfondita molto in Asia e posso dire che questo approccio alla vita me l’ha cambiata, la vita. Quindi, per risponderti, la spiritualità non è opposta alla praticità, anzi! Ciò che è davvero opposto alla spiritualità è l’overthinking, ovvero il farsi logorare da pensieri ossessivi e ripetitivi, pur senza giungere mai a una conclusione. Un antico proverbio asiatico dice: “Chi rivolge la mente al passato è depresso; chi rivolge la mente al futuro è ansioso; chi rivolge la mente al presente è felice”.

Il tuo rapporto con il denaro è un altro argomento che ti è piaciuto toccare spesso durante i tuoi pezzi e anche nei tuoi libri. È possibile riassumerlo in poche parole?

“Se scegli di vivere in una società, i soldi sono importanti. Nessuno può metterlo in dubbio. Il problema viene fuori quando il denaro passa da mezzo a fine, ovvero quando si vive per avere sempre di più perché ci si è fatti convincere che non siano mai abbastanza. Quando i soldi non sono più un semplice mezzo ma un fine (e quindi non lavori per guadagnare quello che serve, ma per avere più di quanto ti serva) ecco che succede qualcosa che secondo me rovina la vita a milioni di persone: si proietta la propria felicità sul denaro. E quando hai 10 vuoi 100, ma poi scopri di non essere tanto felice. E allora vuoi 1000, ma quando hai 1000 ancora non sei felice. E allora ti dici che lo sarai solo quando avrai un milione, ovvero proietti la tua felicità su un obiettivo monetario irrealizzabile, perché questo ti dà la possibilità di lamentarti e giustificare la tua insoddisfazione e il tuo immobilismo. Lo vedo ogni giorno sul blog, quando parlo di cambiamenti di vita e la gente scrive che per cambiare vita servono i soldi. I soldi servono, ma non sono il fattore chiave. Ciò che più conta in qualsiasi cambiamento non si può comprare, ma solo sviluppare: è il coraggio. Poi ci sono la determinazione, la capacità di ragionare fuori dagli schemi, lo spirito di adattamento e sacrificio. Puoi essere milionario, ma se non hai queste caratteristiche non cambierai mai davvero. Tutte le persone più felici che ho conosciuto nella mia vita non sono ricche di soldi e cose, ma di tempo e di passioni. Nessuna di loro era ricca quando ha iniziato la propria rivoluzione personale, ma era determinata e pronta a mettersi in gioco. Chi riempie la sua vita di ciò che lo rende felice, riesce anche a valorizzare ciò che ha senza farsi ossessionare da ciò che non possiede”.

L’uomo ha dei desideri, se no non sarebbe tale. Che tipo di desideri cova Gianluca Gotto?

“Cercare di valorizzare sempre il mio tempo come sto facendo ora. Il tempo è il bene più importante che abbiamo, perché è l’unico che non possiamo accumulare, rubare o acquistare. Passa inesorabile e l’unica cosa che possiamo fare è averne il controllo, scegliere di cosa riempirlo. Questa vita strana che mi sono costruito mi consente di avere il controllo delle mie giornate e mi ha portato a una realizzazione personale che spero di non perdere mai”.

So che il concetto di felicità è un po’ astratto per te. Ma se ti chiedessi se sei felice, cosa mi risponderesti?

“In Asia ho avuto modo di scoprire la meraviglia di un antico simbolo che tutti avranno visto almeno una volta: lo Yin e Yang. Questo cerchio composto da una parte nera con un puntino bianco e una parte bianca con un puntino nero spiega la vita meglio di tante parole. Perché la vita, comunque la si intenda, è basata su un equilibrio, un’armonia tra opposti. Così come non può esserci il giorno senza notte, non può esistere felicità senza infelicità. Quindi l’obiettivo non dev’essere certamente quello (utopistico) di essere sempre felici, altrimenti si diventa vittime di una trappola simile a quella del denaro che non è mai abbastanza. Accettare l’infelicità e il dolore, imparare a godersi e valorizzare la felicità e il piacere: trovare questo equilibrio è alla base di tutto. Quanti top player ho sentito dire che non è importante vincere ogni mano, ma vincere più di quelle che perdi o per lo meno vincere quelle che contano. Nella vita vale lo stesso. Ecco un’altra bella lezione di vita del poker 🙂

Se mi chiedi se sono felice devo risponderti che dipende dal momento in cui me lo chiedi! Ma se mi chiedi se ho una vita felice, la risposta è sì: ho obiettivi in cui mi riconosco totalmente, riempio le mie giornate di ciò che mi fa stare bene, sono padrone del mio tempo e ho la fortuna immensa di avere un corpo funzionante e la mia anima gemella al mio fianco. Non posso desiderare di più”.

"C'è chi pensa che sia impossibile prendere parte a tutti i tavoli finali dei tornei a cui si partecipa. Questo è vero per tutti. Tranne per chi li racconta".
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