Il quarto giorno del mio viaggio alle WSOP 2019 coincide con il secondo di riposo del Big 50. Oggi è previsto l’ultimo dei Day 2, prima che il Day 3 di domani riunisca finalmente i giocatori ancora in corsa per un braccialetto che dovrebbe agilmente superare il milione di dollari di valore, dato l’altissimo numero di entry capace di far sfondare nettamente il montepremi garantito.
A differenza del post-Day 1, dopo il quale faticavo a credere di essere ancora in corsa, mi sento super carico. Quando tornerò al tavolo, infatti, i livelli dei bui saranno di 15.000/30.000/30.000 e con il mio 1.690.000 di stack potrò contare su quasi 60 big blind. Visto il buon livello di gioco che sto esprimendo (o almeno credo!), ci sono tutte le premesse per proseguire ancora a lungo la mia avventura.
In questo Articolo:
Considerazioni sul field del Big 50
L’aria di Las Vegas si è scaldata negli ultimi due giorni, come se la temperatura salisse di pari passo con l’adrenalina che ho in corpo. Le piscine del Rio All-Suite Hotel & Casino sono sempre più affollate, anche se non è difficile trovare un posto dove io e il buon T-Bird possiamo rilassarci. Ed è inevitabile ripensare alla giornata precedente che ci ha visto entrambi andare a premio, anche se purtroppo il mio compagno di viaggio è stato eliminato.
Al netto dell’ormai consueta hand review, attraverso la quale discutiamo delle mani più significative che abbiamo giocato, ci soffermiamo in particolare sul field che abbiamo trovato. Entrambi siamo concordi: lo avevamo sopravvalutato.
Non si tratta di ritenersi migliori degli altri, per carità; più che altro, né io né lui abbiamo incontrato giocatori capaci di finezze particolari o di mosse da lasciarci a bocca aperta. Abbastanza normale per un torneo da ‘soli’ $500 di buy-in, ma da un evento delle WSOP ci aspettavamo – magari a torto – un livello di preparazione globalmente più alto.
Invece abbiamo trovato parecchi giocatori piuttosto scarsi e altrettanti che giocavano un poker ABC: semplice, pulito, lineare.
Una cosa ci ha colpito: l’educazione
T-Bird ha partecipato a diversi tornei di poker live, mentre il sottoscritto ha bloggato più volte eventi dell’EPT, dell’IPT e del Battle of Malta. Perciò possiamo dire che entrambi abbiamo avuto a che fare con tanti giocatori, soprattutto italiani, e c’è una cosa che ci ha colpito in particolare, una differenza con i player made in USA: l’educazione.
In oltre 20 ore di gioco al Big 50 in totale abbiamo affrontato una sessantina di player, e nessuno di questi si è mai permesso di rivolgersi in maniera sgarbata od offensiva a un avversario o a un dealer, a prescindere da ciò che potesse succedere. Ma non ne faccio soltanto un discorso di capacità di sorridere, per quanto possibile, ad errori involontari, scoppi, bad beat ed eliminazioni dolorose.
La cosa forse più bella è stata l’applicazione di una certa etichetta, di un certo tipo di rispetto del gioco, una specie di legge non scritta: “mi diverto e faccio in modo che si divertano anche le persone sedute al mio tavolo”. Quindi niente perdite di tempo inutili, niente decine di secondi, finanche minuti, ragionando su chissà quali massimi sistemi, prima di foldare 7 2 pre-flop da under the gun.
Sicuramente il poker negli Stati Uniti ha radici culturali più profonde e radicate rispetto al nostro Paese, e magari le nuove generazioni nostrane sono/saranno più simili come forma mentis ai colleghi statunitensi, ma per il momento direi che sotto questo punto di vista abbiamo ancora parecchio da imparare.
Bando alle ciance: è tempo di Day 3
Ci siamo.
È mercoledì 5 giugno e il tavolo 311, posto 5, della Pavillion Room mi aspetta.
In realtà ci rimango seduto davvero poco. Il gioco si interrompe dopo tre o quattro mani, perché tutti gli short-stack hanno visto bene di provare subito il double-up e molti di loro non ce l’hanno fatta: una lunga coda per espletare le formalità preliminari prima di passare alla cassa ferma le operazioni per un buon quarto d’ora. Poi, quando si riparte, vengo spostato praticamente subito al tavolo 196, posto 8.
La giornata inizia discretamente. Forte del mio stack, apro e rubo qualche piatto, portandomi prima a 2,1 milioni e poi a 2.435.000, praticamente senza rischiare.
Poi qualcosa si inceppa.
Per quasi sei livelli non ho più una mano minimamente giocabile: è tutto un susseguirsi di 9-3, Q-2, J-6, 8-5 e variazioni sul tema. Ogni tanto mi porto a casa un piatto quando mi permettono di giocare in situazione di buio contro buio, perché fortunatamente alla mia sinistra c’è un giocatore non troppo brillante che mi regala una buona fetta del suo stack, quando con K 4 mi paga tre strade.
Lo fa su un board A K 2 4 9 , sul quale sicuramente sono fortunato a chiudere una doppia coppia al turn. Come detto, lui chiama tre puntate e al river, dopo aver fatto call, getta le sue carte nel muck non senza un po’ di stizza: probabilmente aveva un K con un kicker migliore del mio, o magari un asso debole con cui forse avrebbe fatto meglio a rilanciare pre-flop.
All’inferno e ritorno
Sei livelli equivalgono a 400 minuti di gioco, o se preferite 6 ore e 40 minuti – pause escluse. In tutto questo tempo, la mano migliore che mi capita è un A 10; purtroppo devo foldare pre-flop, perché dopo l’open-raise di un giocatore da early, un altro va all-in da middle e io da cutoff non posso rischiare di rimanere con le briciole con una mano del genere, solo perché è l’unica decente spillata finora.
Ho un sussulto d’orgoglio quando con A 2 elimino uno short che manda i resti con 3 3 e trovo un asso al flop, ma alla fine del 28° livello mi ritrovo con circa 1,8 milioni di chip e bui 100.000/200.000/200.000 da affrontare.
Al rientro dalla pausa cena sono subito di big blind e devo foldare. Nella mano successiva, il bottone apre rilanciando a 650.000. Da small blind, guardo la prima carta: è un A . Non mi serve neppure controllare la seconda: non posso permettermi di foldare anche questa mano e rimanere con 6-7 big blind, quindi annuncio l’all-in.
Il mio avversario (lo stesso americano che ritroveremo più avanti…) chiama e mostra A J , io giro le carte e con mia somma gioia anche la mia seconda è un asso! Precisamente un A che mi posiziona in netto vantaggio pre-flop, tanto che la mia mano regge su un board neutro permettendomi di riprendere un po’ di fiato.
È il momento migliore del mio Day 3. La mano successiva, un giocatore credo indiano che non ha mai mostrato le sue carte fin qui, aprendo sempre pre-flop con rilanci esagerati (anche x5 o x6), decide di fare open-raise da cutoff con una size di 900.000. Io da bottone ho A 8 e poco più del suo stack.
Ci rifletto parecchio, ma valuto che sia il caso di chiamare: ho un asso suited, il kicker non è entusiasmante ma neppure così basso; certo, se perdessi questo colpo mi rimarrebbero qualcosa come 60.000 chip, ma siamo arrivati ad una fase del torneo in cui non credo di potermi permettere di passare in una situazione del genere. E poi è anche ora di vedere con che mani gioca il nostro amico indiano! Allo showdown lui mostra K 10 e non posso dire di non esserne contento. Anche perché ancora una volta il board è liscio e io salgo a 6.250.000.

AA vs K3
Ed eccoci qui, al momento con il quale ho iniziato il mio racconto.
Sono passati pochissimi minuti da quando ho praticamente raddoppiato: ho vissuto una giornata in buona parte terribile, ma nel giro di un paio di mani tutto è cambiato. Non è per motivi come questo, che tutti noi amiamo quel fantastico gioco che si chiama Texas Hold’em? Niente è perduto finché sei in gioco. A chip and a chair, si dice non a caso.
Il nostro amico americano, che poco prima mi aveva fatto raddoppiare, ha appena annunciato la sua four-bet all-in con K 3 e, come forse ricorderete, io faccio snap-call con A A . Sinceramente non mi sta molto simpatico, quel tizio: ha l’aria di uno che se la tira un po’ troppo e che si ritiene superiore non solo al resto del tavolo, ma probabilmente al resto del mondo.
Forza dealer, finora sei sempre stato clemente con me: ti chiedo di esserlo ancora una volta. Non ho bisogno di una aiutino, basta che lasci le cose come stanno. Del resto, i miei assi neri sono favoriti all’84,98% contro la mano del mio avversario. Se vinco questo piatto faccio double up e volo a oltre 12 milioni di chip praticamente garantendomi almeno il Day 4, visto che manca poco agli ultimi due livelli di giornata.
Ma il flop è un pugno nello stomaco: Q J 10.
La situazione si rovesciata. Adesso è il mio avversario ad essere aritmeticamente molto avanti grazie al suo colore, precisamente al 72,63%. Tuttavia ho ancora parecchi out: con qualsiasi carta di picche, eccetto il 9 , volo in Paradiso.
Turn: 7 .
Pre-flop ero in vantaggio quasi all’85%, ma arrivo al turn che ho la miseria del 13,64% di probabilità di non dover dire addio al sogno di un braccialetto WSOP. Dentro di me ci credo ancora, devo crederci: sono arrivato fino a qui, a 187 left, superando oltre 28.000 giocatori e sono letteralmente ad una carta di picche di distanza dal raggiungere il penultimo giorno del torneo.
River: 4 .
È finita.
GG WP, Claudio Poggi
Mi accascio sulla sedia, lasciandomi scivolare fin quasi sotto al tavolo. Il giocatore che mi ha appena eliminato sorride, bofonchia qualcosa sul fatto che nel poker ci vuole anche un po’ di fortuna, e raccoglie quelli che fino a un attimo prima erano i miei gettoni.
Vorrei chiedergli come abbia fatto a mandare i resti con K 3 contro un giocatore tight come me, che ha appena investito 1,6 milioni di chip in three-bet lasciandosene dietro poco più di 4, ma francamente in questo momento non mi interessa nulla.
Mentre mi alzo e gli stringo la mano, riguardo per l’ultima volta un board che rimarrà per sempre impresso nella mia memoria, quasi sperando che quell’ultima carta di fiori si trasformi per magia in una carta di picche.
Sto aspettando che lo staff delle WSOP venga a portarmi il talloncino per andare a ritirare il mio premio, poco più di 7.000 dollari, quando un altro giocatore del mio tavolo, un personaggio molto positivo e simpatico che aveva fin lì alleggerito la mia giornata – passata per lo più a foldare – si alza e mi si avvicina per darmi una pacca sulla spalla.
“Mi dispiace tanto amico mio, eri sicuramente più bravo di lui e meritavi di andare avanti”, mi dice. Si chiama Danny Ghobrial e riuscirà a spingersi fino al tavolo finale del Big 50, dove chiuderà al 6° posto per un premio di $236.508.
Bye bye Las Vegas, bye bye WSOP
Credetemi, ho soltanto un vago ricordo degli ultimi due giorni passati nella Sin City. Quei due assi neri, quel K 3 , quelle cinque carte comuni occupano i miei pensieri da quando mi sveglio a quando chiudo gli occhi. Non riesco ancora a rendermi conto quanto di straordinario ho comunque fatto, arrivare 187° su 28.371 (primo tra gli italiani): penso soltanto a cosa avrei potuto fare per evitare l’eliminazione.
Potevo mandare direttamente la vasca, invece di piazzare una three-bet? Il mio avversario avrebbe sicuramente foldato con K-3: mai si sarebbe giocato il torneo con una pessima mano del genere. Ma sarebbe stata la mossa sbagliata. No, era giusto controrilanciare perché volevo che lui mettesse tutte le sue chip nel piatto. Non posso farmi influenzare dall’esito negativo: ho giocato bene, punto.
Mentre l’aereo accende i motori e romba sulla pista, pronto a innalzarsi nel cielo e a riportarmi in Italia, lancio un ultimo sguardo su Las Vegas; terra di lustrini e paillettes, di luci e colori sgargianti, di imprevisti e probabilità, di fantasie e di sogni.
Il mio, in fondo, l’ho realizzato.