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La delusione nel Main Event, il ritiro buddhista, il ritorno milionario: l’incredibile storia di Andy Black

Il poker sa regalare storie incredibili, forse perché si tratta di un gioco che è al tempo stesso anche una metafora della vita. Uno scoppio tremendo subito al tavolo, magari in un momento decisivo di un torneo, è paragonabile a un brutto colpo subito nella vita reale.

Quando meno te lo aspetti e quando sai di non meritartelo, la sfortuna ti colpisce e ti lascia senza niente. Succede nel poker e succede nella vita.

Andy Black lo sa bene.

Negli anni novanta la sorte gli voltò le spalle quando gli mise Stu Ungar alla sua sinistra nel Main Event WSOP, a 14 left. L’eliminazione per mano di The Kid fu talmente devastante da spingerlo a mollare tutto e rifugiarsi in un monastero buddhista.

Dopo cinque anni trascorsi a meditare, il player irlandese tornò ai tavoli e vinse milioni di dollari. Una storia che sembra provenire dalla sceneggiatura di un film, e invece è realtà.

Incredibile ma vero, come spesso succede nel poker.

L’incredibile storia di Andy Black

Gli anni novanta di Andy Black: sesso, droga e poker

A vederlo oggi, Andy Black sembra un simpatico signore di cinquant’anni che si diverte ai tavoli da poker. Il suo accento irlandese è inconfondibile, il suo sorriso è quello di un uomo tranquillo e in pace con se stesso. Lo chiamano The Monk – il monaco – ma in pochi conoscono il motivo di questo soprannome. Per comprenderlo bisogna andare dietro di vent’anni.

Siamo nel 1997 e il poker è ancora lontano dall’essere quel fenomeno di massa innescato dalla vittoria di Chris Moneymaker al Main Event WSOP del 2003. A quei tempi i giocatori di poker erano visti come loschi figuri, gambler senza speranza.

Uno stereotipo con un fondo di verità (come sempre): negli anni novanta gran parte dei poker pro di Las Vegas conducevano vite instabili basate su eccessi di ogni tipo.

Negli anni novanta lo spacciatore di cocaina era uno dei dealer ai nostri tavoli. All’epoca avevo un naso gigante, a essere onesti“, ha ammesso Andy in una recente intervista per Pokerlistings.com.

“C’erano un sacco di situazioni particolari”, ha proseguito ricordando quei tempi difficili ma al tempo stesso indimenticabili. “Forse facevamo certe cose semplicemente perché eravamo giovani. Ricordo un episodio divertente: quando giocavamo al Binion’s, c’era una schiera di fidanzate e mogli che ci aspettavano al bar. Ognuna di loro sperava che il proprio partner vincesse ai tavoli, così da potersi almeno sedere per bere e mangiare qualcosa”.

Andy non si fa alcun problema a raccontare quanto fossero estreme le vite dei professionisti del poker vent’anni fa. Lo fa perché è uno dei pochi ad essere uscito indenne dal circolo vizioso di alcool e droghe.

È stato un percorso lungo e difficile, che iniziò con uno scontro a senso unico con Stu Ungar.

 

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Andy Black e il blackout contro Stu Ungar al Main Event 1997

Nel 1997 non esistevano tornei high roller, non c’era il poker online, né gli show televisivi sul cash game. Il momento clou dell’anno pokeristico era il Main Event WSOP.

In piena estate, ogni giocatore professionista si recava a Las Vegas per dare la caccia al braccialetto più prestigioso. I field non paragonabili a quelli odierni (oggi ci sono migliaia di iscritti, all’epoca centinaia) e il livello era più basso erano due fattori che permettevano ai pro di raggiungere con maggiore facilità le fasi finali.

Capitava spesso che due nomi noti si trovassero seduti vicini in prossimità del final table. Così successe vent’anni fa: a 15 left, Andy Black aveva alla sua sinistra il leggendario Stu Ungar.

Il primo premio era di un milione di dollari e il final table era distante appena sei eliminazioni. Andy Black stava per centrare il più importante risultato in carriera, mentre Stuey aveva già ottenuto due vittorie nel Main Event.

“Ero interessato a Stuey, era una leggenda del gioco”, ha raccontato Black. “Quando scoprii di averlo alla mia sinistra a 15 left mi disperai. Ero forse il secondo o terzo miglior giocatore nel field rimanente, ma Stuey era su un altro livello”.

Stu Ungar
Quel Main Event WSOP del 1997 finirà proprio con il successo di Stu Ungar

Andy sperimentò una tremenda sudditanza psicologica nei confronti del suo idolo. Invece di utilizzare il gioco aggressivo che gli aveva permesso di costruirsi un big stack, si trasformò in una calling station. Cascò a piedi pari nella trappola di Ungar, che continuava a puntare postflop per costringerlo al fold.

Il risultato fu disastroso per l’irlandese: nel giro di poche mani si ritrovò fuori dal Main Event WSOP. Rimase attonito nelle sale del Binion’s, chiedendosi come fosse stato possibile uscire in 14° posizione nel torneo della vita.

La delusione era così grande da sfociare nella disperazione. Mentre si recava alle casse del Binion’s per ritirare il suo premio, Andy prese una decisione drastica: avrebbe abbandonato per sempre Las Vegas.

Il ritorno in Europa e i cinque anni in un monastero buddhista

Se volevi essere un pro negli anni novanta dovevi per forza vivere a Las Vegas. In Irlanda giocavano così poche persone che in un anno non riuscivi nemmeno a vincere i $10.000 per il buy-in del Main Event WSOP”.

Questa è una dichiarazione di Andy Black che dimostra quanto fosse improvvisata la decisione di tornare in Europa. Nell’era pre-online, un professionista del poker non poteva fare altro che trasferirsi a Las Vegas. Giocatori come Gus Hansen, Daniel Negreanu e anche il nostro Max Pescatori, non sarebbero mai riusciti a diventare le superstar che sono oggi se fossero rimaste a casa.

Negli anni novanta il poker era Las Vegas.

Ma Andy ne aveva abbastanza. L’uscita in 14° posizione dal Main Event WSOP era stata troppo dolorosa.

Non era quello l’unico fattore alla base della sua scelta: non voleva più vivere un’esistenza superficiale, basata esclusivamente su denaro, droghe, sesso e gioco d’azzardo.

“Dopo le WSOP del 1997 mi sentivo miserabile”, dichiarò in un’intervista del 2007 a Pokernews. “Stavo conducendo una vita di illusioni, dove non facevo altro che bere e drogarmi. Ero molto infelice. Non facevo niente di positivo, giocavo solo a poker. E lo stesso poker era diventato un’esperienza miserabile”.

Al rientro in Europa, Black tentò di continuare la sua carriera di poker pro in Francia, giocando a cash game nello storico Aviation Club di Parigi. Ma ben presto capì che la soluzione alla sua infelicità si trovava altrove.

“La mia fidanzata dell’epoca faceva yoga e in qualche modo mi imbattei nella meditazione. La prima cosa che mi dissero a lezione fu che nella meditazione “non ci sono insegnamenti, ma solo una profonda consapevolezza“. Mi piacque immediatamente, così inizia a meditare ogni giorno”.

Andy trovò nella meditazione la soluzione a molti dei suoi problemi: una maggiore consapevolezza era la strada giusta per allontanarsi dalle tenebre di alcool, droghe ed eccessi. Finché, sul finire del 1997, lesse un libro sul buddhismo che cambiò la sua vita.

“Lessi quel libro e capii immediatamente di essere un buddhista. Fu una sorpresa, perché non ero una persona religiosa. E non lo sono nemmeno oggi. Ci sono grandi verità in ogni singola religione, ma il buddhismo ti dà la prospettiva più ampia. Ti fornisce gli strumenti da utilizzare, ma non ti dà risposte dirette”.

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Per Andy non si è mai trattato di religione, dogmi e comandamenti ma di un modo di vedere il mondo e la vita. La scoperta della meditazione e del buddhismo lo spinsero a prendere un’altra decisione drastica: ritirarsi in un convento in Irlanda.

“Passai sei mesi vivendo e lavorando a stretto contatto con i monaci. Sapevo che la mia vita era cambiata davvero. Così continuai a vivere nelle comunità e nei monasteri buddhisti di tutto il mondo. Meditavo ogni giorno, partecipavo ai ritiri e studiavo. Vissi in questo modo per cinque anni“.

Il ritorno a Las Vegas

Cinque anni sono tanti. Black passò questo lasso temporale meditando ogni giorno, lontano da distrazioni ed eccessi di alcun tipo. Alla fine ottenne le risposte che cercava, ma soprattutto capì di essere diventato un uomo equilibrato e forte. Non fisicamente, ma spiritualmente, e di conseguenza anche mentalmente.

In altre parole, Andy era pronto a tornare a giocare a poker.

Con un altro approccio e una grande consapevolezza del suo ruolo nel mondo e del ruolo del poker nella sua vita: una passione, ma anche e soprattutto una professione con cui guadagnarsi da vivere.

Quando tornai a Las Vegas continuai a meditare“, disse nel 2007 a Pokernews.com “È un modo perfetto per resettarmi. Una volta ero uno che se la prendeva molto facilmente. Impazzivo, davvero. Ora invece sono più tranquillo. So che questo cambiamento avviene anche con l’età, ma gran parte del merito è da attribuire alla meditazione. Ora mi conosco in profondità e ho imparato a riconoscere le mie tendenze“.

Questa consapevolezza è stata l’arma vincente per trasformare Andy Black da giocatore talentuoso ma pieno di vizi e debolezze a un professionista costantemente lucido e in pieno controllo delle sue emozioni.

Niente più blackout come quello del Main Event 1997: al ritorno a Las Vegas, Andy Black era pronto per vincere i massimi.

Il successo di The Monk

Andy Black tornò a Las Vegas nel 2005, in pieno boom del poker.

Due anni prima Chris Moneymaker aveva sconfitto nell’heads-up del Main Event WSOP Sammy Farha. Da una parte un contabile con l’aria da nerd qualificatosi online su Pokerstars.com, dall’altra uno dei più azzeccati esponenti della vecchia scuola, quel player di origini libanesi con la sigaretta in bocca, il look da Tony Montana, la battuta sempre pronta e lo sguardo penetrante.

Il successo di Moneymaker diede il via al boom del poker. Andy Black si presentò in leggero ritardo alla festa, ma riuscì comunque a godere di quegli anni semplicemente irripetibili.

Grazie al mindset di ferro che aveva acquisito nei cinque anni trascorsi tra comunità e monasteri buddhisti, si impose immediatamente come uno dei torneisti più solidi e forti in circolazione.

Con la certezza che la vita è molto più di poker, soldi e piaceri effimeri, Andy si presentava ai tavoli con un A-game invidiabile. E i risultati arrivano di conseguenza.

Tra il 2005 e il 2007 mise a segno 38 piazzamenti a premio nei tornei di tutto il mondo (nel frattempo il poker era diventato un fenomeno globale). Centrò il suo primo final table alle WSOP e la prima vittoria in carriera.

Ma soprattutto, incassò milioni di dollari. Per intenderci, nel giro di pochi giorni, all’Aussie Millions di Melbourne, chiuse secondo in un torneo di Pot-Limit Omaha per $115.500 e terzo nel Main Event per $700.000.

Il risultato più importante di tutti, però, arrivò subito dopo il rientro a Las Vegas. Sul finire delle WSOP 2005, Andy si iscrisse nuovamente a quel maledetto Main Event e riuscì finalmente a raggiungere il final table. Chiuse in quinta posizione e portò a casa $1.750.000. Più di quanto avrebbe incassato vincendo il Main Event del 1997.

In quell’occasione nacque anche la leggenda di The Monk. La sua storia era troppo appetibile a livello mediatico, e tutti i giornalisti (di settore e non) volevano intervistare il “monaco buddhista” che vinceva milioni di dollari ai tavoli di poker.

Andy Black, oggi

Oggi Andy Black non è più il giocatore instabile degli anni novanta, ma nemmeno il regular dei tornei più alti al mondo che era dieci anni fa. The Monk ha deciso di vivere in pianta stabile nella sua Irlanda e giocare a cash game nelle poker room locali. Ha accumulato abbastanza denaro.

“Ho un bambino di un anno in Irlanda”, ha dichiarato recentemente a Pokerlistings.com dalle sale del Rio, dove sta giocando le WSOP 2017. “Teoricamente starò qua solo per 20 giorni, ma forse prolungherò la trasferta. Però se ci fosse bisogno di me a casa, tornerei alla velocità della luce”.

Oggi Andy Black è un uomo realizzato.

Non è stato facile: è passato per droghe, abuso di alcool, soldi sperperati ai tavoli, isolamento dal mondo esterno e introspezione. Ha avuto il coraggio di tornare laddove aveva fallito miseramente, per tornare a inseguire quei successi che lo avevano tormentato.

La vittoria più grande di Andy Black resta però quella consapevolezza acquisita attraverso un percorso personale lungo e difficile. Quando sai di essere sulla strada giusta, non esistono bad beat o cooler in grado di farti crollare.

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