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Kawhi Leonard è il Phil Ivey del basket? Ecco quattro elementi in comune tra i due campioni

Kawhi Leonard & Phil Ivey: vincenti nati

A un primo sguardo Kawhi Leonard e Phil Ivey non hanno nulla in comune, a parte il luogo di nascita. Entrambi sono infatti nativi di Riverside, città californiana che diede i natali anche ad altre stelle dello sport come Barry Bonds e Reggie Miller. Banalmente, Phil e Kawhi hanno in comune anche l’essere dei fenomeni in quello che fanno. Ma le possibili connessioni tra la leggenda del poker e il fresco MVP delle Finali NBA ci sono e, al netto di divagazioni retoriche, se ne possono identificare almeno quattro.

Passione totalizzante

Leggendo le biografie dell’ala dei Toronto Raptors e dell’ex pro di Full Tilt emergono due percorsi molto differenti, ma che hanno in comune una valvola di sfogo giovanile, divenuta poi attività in cui ciascuno è diventato un campione. Kawhi adorava già la pallacanestro, ma il basket diventa per lui fonte di vita nel 2008. Suo padre Mark, che gestiva un autolavaggio, viene ucciso durante un tentativo di rapina. Così Kawhi si ritrova a dover diventare improvvisamente adulto a 17 anni. Come valvola di sfogo, il giovane Leonard si butta a capofitto nella sua grande passione: il basket. Arriva sempre molto prima di tutti in palestra e se ne va molto dopo, sottoponendosi a infinite sessioni di tiro e di allenamento fisico. Sarà questa la base di partenza del campione che conosciamo, il pilastro fondante di un giocatore che si è costruito da sé grazie a una incredibile etica lavorativa, che ha permesso al suo enorme talento di sbocciare come meglio non avrebbe potuto.

Phil Ivey, per sua fortuna, non ha avuto le stesse vicissitudini tragiche in gioventù. Però aveva una irrefrenabile voglia di scappare dal futuro precario che molto probabilmente lo attendeva in New Jersey, dove i suoi si erano trasferiti dalla California quando lui era ancora in fasce. Così, dopo aver lavorato nei Mcdonald e nel telemarketing, anche lui decide di investire tutto sulla sua più grande passione, che coincide con il principale talento: quello del giocare divinamente a carte. E non c’era ostacolo che potesse trattenerlo, dai suoi propositi. Per 50 dollari si compra un documento falso, con cui potere entrare nei casinò di Atlantic City anche senza averne l’età minima per legge (21 anni). Una volta dentro, Jerome Graham (questo il suo nome finto) non ne esce più, al punto che presto gli viene affibbiato il nomignolo “No home Jerome”, proprio perché passava talmente tanto tempo dentro al casinò da far venire il sospetto che non avesse una casa dove andare. Fermo restando che stiamo parlando della violazione di una legge, quel continuo giocare e imparare è stata la base da cui è nato il fenomeno Phil Ivey.

Un dettaglio del documento dell’improbabile “Jerome Graham”

Gli antidivi

Phil Ivey non è mai stato un campione a cui piace troppo esporsi. Anche durante i tempi d’oro del poker, quando era una delle icone di Full Tilt e già idolatrato da milioni di appassionati, non si ricordano interviste più lunghe di una domanda rubata al termine di un torneo. Né Ivey si è mai lasciato trascinare in nessun tipo di trash talking o provocazioni da chicchessia.

Analogamente Kawhi Leonard, anche per le vicissitudini familiari che ne hanno forgiato il carattere, è una sorta di eccezione nell’universo dei giocatori professionisti NBA. Nessuno sfarzo, men che meno sfoggio di ricchezza o benessere, anzi: fino al suo secondo anno in NBA, Kawhi andava in giro con una Chevy scassata del 1997. Solo in seguito la famiglia lo convinse a cambiare auto, ma le follie “ballas” non rientrano proprio nel suo DNA. Non solo, perché Leonard non usa praticamente nessun social network e non ride mai. O, almeno, non lo si era quasi mai visto ridere fino all’altro giorno, dopo la vittoriosa Gara 6 contro i Golden State Warriors che ha regalato a lui e a Toronto il titolo NBA.

Toronto-Philadelphia, gara 6 delle semifinali di conference: Kawhi Leonard e Joel Embiid (a sinistra) guardano la palla ballare sul ferro. Poi entrerà.

La completezza

Forse, nonostante l’innegabile oceano di differenze tra il mondo del basket e quello del poker, l’elemento più limpidamente in comune tra Kawhi Leonard e Phil Ivey è la completezza.

Il numero 2 dei Raptors in campo sa fare letteralmente tutto: più volte eletto difensore dell’anno, ha un arsenale offensivo di primissimo livello, che avevamo già visto all’opera con gli Spurs e ci siamo stragoduti durante questi ultimi playoff NBA. Tira, passa, tratta la palla, sporca linee di passaggio, prende rimbalzi, palleggio-arresto-tiro, penetra e scarica, all’occorrenza stoppa e difende almeno su tre ruoli: non esiste nulla che non gli si possa chiedere in campo.

Scopri tutti i bonus di benvenuto

Phil Ivey è uno dei polivalenti più forti della storia. Si pensi che i suoi 10 braccialetti WSOP sono stati vinti in 8 specialità differenti, e nessuno in No Limit Hold’em. Ecco il dettaglio:

2 Pot Limit Omaha
1 Seven Card Stud
1 Seven Card Stud Hi/Lo
1 Omaha/Seven Card Stud Hi/Lo
1 No Limit 2-7 Draw Lowball
1 Mixed Game
1 8-Game Mix
1 H.O.R.S.E.
1 S.H.O.E.

Quand’anche domani nascesse una nuova variante (e ne spuntano fuori di nuove molto spesso), state pur certi che Ivey sarebbe tra i primi a padroneggiarla e cercare dei piccoli vantaggi da trarre.

Poker face: provate voi a farne una migliore

La poker face

Tra le ragioni del successo di Phil Ivey ci sono ovviamente i braccialetti e altri major vinti, mani spettacolari di cash game e bluff memorabili. Il marchio di fabbrica di Phil è però senza dubbio la proverbiale poker face. Imperturbabile, quasi fumettistica, l’espressione fintamente inebetita di Ivey è una vera icona nell’immaginario collettivo dei pokeristi. Se provaste a chiedere a ciascun appassionato “Che poker face ti piacerebbe avere?” non mi sorprenderei se l’80% rispondesse proprio “quella di Phil Ivey”.

E a proposito del non ridere mai di Kawhi, sul parquet ciò si traduce in un glacialità assoluta, una totale impermeabilità alle emozioni che però non gli impedisce di essere un leader silenzioso e un punto di riferimento per i compagni. Ma che si tratti di un buzzer beater in finale di conference o di un semplice tiro dalla media a metà primo quarto di un match di regular season, la gamma di espressioni facciali di Leonard non arriva a 4 varianti. Se c’è una poker face nel basket, quella è assolutamente la sua.

"Assopoker l'ho visto nascere, anzi in qualche modo ne sono stato l'ostetrico. Dopo tanti anni sono ancora qui, a scrivere di giochi di carte e di qualsiasi cosa abbia a che fare con una palla rotolante".
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