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Doyle Brunson: un estratto del libro “The Godfather of Poker” – parte seconda

Doyle Brunson durante le WSOP del 1976La seconda ed ultima parte dell’estratto del capitolo preferito di Doyle Brunson sulla sua vittoria al Main Event delle World Series of Poker del 1976, tratto dalla recente autobiografia “The GodFather of Poker”.

“Avevamo giocato per tutta la notte e mancava poco all’alba. Pensai che potevo farlo fuori in breve tempo. Nella mano successiva, mi vennero distribuiti 10-2, sicuramente non una delle mani che mi piaceva giocare di più. Ma ebbi come una sorta di premonizione. Jesse Alto era di small blind e timidamente aveva rilanciato il piatto. Io feci call perchè avevo molte chips e posizione su di lui. Il flop portò A-J-10 che mi diedero una coppia. Jesse puntò e io andai a vedere. Avevo in mano una bottom-pair con un kicker praticamente inutile ma allo stesso tempo non pensavo che Jesse potesse avere chissà cosa. Un 2 arrivò sul turn, dandomi una doppia coppia. Jesse era il primo a parlare e fece una puntata piccola. Da parte mia pensai subito di avere la mano migliore e perciò decisi di andare all-in. Lui allora cominciò a guardarmi fisso, cercando di immaginare cosa potessi avere. C’era ancora un’altra carta da scoprire e per vederla avrebbe dovuto mettere nel piatto tutto il suo stack. Se avessi vinto, a quel punto era tutto finito. Nel caso contrario, invece, lui con quel piatto sarebbe tornato decisamente in gioco.

Potevo chiaramente vedere i segni di stanchezza sul volto di Jesse, sicuramente comparsi in seguito a quell’estenuante maratona. Stavamo giocando da 32 ore di fila, una cosa che io avevo già fatto molte volte nella mia carriera, ma mai per un evento così prestigioso. I suoi occhi erano contornati da profonde occhiaie nere. Aveva bevuto molto caffè per cercare di rimanere sveglio e la sua testa si era chinata leggermente così che poteva osservarmi da una angolazione più bassa, mentre il suo mento stava sempre più sprofondando nella sua mano. Aveva una barba di un giorno e sembrava proprio che avesse bisogno di farsi una buona dormita. Non pensai di apparire molto meglio di lui, sicuramente non grazie a tutto il fumo di sigaretta che mi offuscava la vista. Ma tutto ciò non ci distoglieva dalla nostra concentrazione sul gioco. Non sarebbe stato certo un po’ di sonno arretrato a farci regalare la vittoria all’altro.

Jesse non ci mise molto comunque a chiamare il mio all-in. E questo lo interpretai come un segnale non buono per me. Jesse spinse dunque tutte le sue chips nel piatto e io pensai che la mia doppia coppia potesse essere sicuramente avanti e che lui aveva bisogno di essere fortunato al river. Ma mi ero sbagliato completamente. “Cos’hai?” gli chiesi. Il mio cuore sobbalzò quando vidi i suoi A-J. Le carte del board erano A-J-10-2 e Jesse aveva una doppia coppia migliore della mia. Aveva un vantaggio enorme rispetto a me. Naturalmente non c’era stato modo di saperlo in anticipo. Poichè da un po’ aveva iniziato a sbuffare, pensavo che avesse giocato quella mano senza prestare troppa attenzione. Già in precedenza gli avevo vinto dei piatti con soltanto A-high. Sapevo che una volta che si incominciava a stancare buttava facilmente via i suoi soldi  ed è per questo motivo che avevo deciso di giocare quella mano. Purtoppo però, proprio nel momento più importante di tutta la partita, ero stato sfortunato a beccarlo pieno. “Mi hai battuto” dissi girando i miei 10-2. Ma in cuor mio sapevo che se anche avessi perso quel piatto, avrei avuto ancora circa un terzo delle chips in gioco e potevo quindi provare a recuperare. C’era ancora tanto da giocare, ed ero sicuro di poter tornare al comando. E comunque avevamo pur sempre ancora una carta da vedere, il river. Mi restavano 4 outs per  vincere: se avessi infatti beccato un 10 o un 2 avrei realizzato un full-house. Talvolta, quando le persone danno un’occhiata veloce ad una mano di Hold’em, sembra quasi che il gioco si riduca semplicemente a prendere quell’unica carta fortunata. Ma il poker non è fatto di una sola mano, ma bensì di una lunga ed interminabile serie di esse, dove chi sa prendere le giuste decisioni porta a casa le chips. Prima di arrivare a giocare una mano cruciale, già in precedenza è stato fatto un lungo lavoro di deception e di costruzione del gioco. I players migliori giocano sugli avversari e non in base alle carte che hanno. Ed è questo che li separa da quelli appena buoni che non hanno ancora capito a pieno tale concetto.

La tensione nella stanza si era fatta davvero alta perchè tutti volevano vedere quale fosse l’ultima carta. Mentre tutti cercavano di sporgersi per avere una miglior visuale del tavolo, il dealer stava aspettando solo il via da Jack Binion per distribuire il river. Non avevo mai partecipato ad un momento così Doyle Brunson vince il Main Event WSOP 1976significativo: se scendeva una della carte che mi servivano, la partita era definitavamente chiusa. Sentivo il peso di tutte quelle ore di gioco. Poi il dealer prese la carta da sopra al mazzo e la girò. Wow, era davvero un 10 di quadri? Un rumore assordante arrivò improvvisamente dalla gente intorno al tavolo e vidi anche le telecamere che cercavano di riprendere il tutto. Fu proprio così che realizzai di aver chiuso il punto che mi serviva: avevo battuto la doppia coppia di Jesse con un full-house di 10 e 2. Ero il nuovo campione del mondo di Poker!

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Mi alzai dal tavolo con un sorriso grande probabilmente quanto il mio cappello Stetson. Tutti mi facevano i complimenti, saltando e battendo le mani e dandosi pacche sulle spalle. I loro festeggiamenti furono così contagiosi che presto mi coinvolsero in prima persona. Avevo attesso quel momento da davvero tanto tempo. In qualche modo quella vittoria fu la più grande emozione di tutta la mia carriera di giocatore di poker, anche se per certi versi la mia euforia non era proprio al massimo. In fondo pensavo che tutto quello mi fosse quasi dovuto. Nel 1972 aveva vinto Amarillo Slim e nel 1973 era toccato a Puggy. Nel 1974 era stata ancora la volta di Moss seguito poi nel ’75 da Sailor. Adesso invece era il mio turno e mi sentivo come se fosse una cosa in un certo senso scontata. Difatti non ne ero troppo sorpreso. Neanche il denaro mi impressionò più di tanto: tutti quei mazzetti da 100 dollari che Jack Binion spinse verso di me facevano un totale di 220.000$, davvero una gran bella cifra per quei tempi. Era anche il premio più alto mai vinto in un torneo prima di allora. Ma per me era il titolo la cosa più importante. Finalmente potevo entrare ufficialmente nel novero dei più grandi giocatori di no-limit hold’em, al pari di quelli che sfidavo regolarmente ai tavoli cash game.

Quando quell’ultima carta mi incoronò campione, mi sentii come se avessi scalato il Monte Rushmore. Mentalmente e fisicamente mi sentivo distrutto, ed ero quindi davvero felice che fosse tutto finito. In verità lo ero anche perchè volevo partecipare ad uno di quei side-game sempre particolarmente appetitosi che si svolgevano durante tutta la durata del Main Event delle WSOP. Per un anno almeno avrei mantenuto il titolo di campione del mondo di poker, e per un giocatore credo non esista sensazione migliore.”

Qui trovi la prima parte dell'estratto di questo capitolo sulla vittoria di Doyle Brunson al Main Event WSOP del 1976.

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