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Valore Disatteso: #11 – Appunti ambiziosi

Per tutta la vita mi sono considerato una persona ambiziosa. Non mi è per niente chiaro cosa sia effettivamente l’ambizione, né ciò che essa implichi nella mia vita e nelle mie scelte, ma ho sempre dato per scontato di possederne molta. Quando, in effetti, vivo uno dei miei frequenti (e ormai francamente ripetitivi) momenti di dubbio sulle mie scelte professionali è sempre l’ambizione che mi frega, è sempre quello il metro di giudizio di fronte al quale clickare per soldi dalla sedia Markus nel mio salotto semplicemente non riesce a qualificarsi come lavoro “degno”. La tengo lì, parcheggiata con la scusa che non sarò un professionista per sempre, tenuta a bada con qualche formazione di compromesso qua e là, ma l’ambizione rimane, me la porto dietro.

Ma insomma, cos’è? Cos’è l’ambizione? È un sentimento positivo o negativo (non tanto in generale, ma per me)? Se le do retta per un attimo, se ascolto le sue richieste come un negoziatore ascolta un rapinatore asserragliato in banca con degli ostaggi, viene fuori che le uniche prospettive esistenziali che le vanno bene sono quelle che si presentano come vite inimitabili d’annunziane, come vite straordinarie, come successi. Non mi pare buon segno.

Oltretutto lo stesso concetto di “successo” è chiaramente condizionato dal contesto che mi circonda: quando ero all’università, in un mondo di libri, professori, camerieri venuti a Roma con una chitarra acustica, un sogno e un taglio alla Kurt Cobain, “successo” era scrivere, dare voce alla mia generazione, magari studiare, fare ricerca, diventare un grande critico, vabbè dai tutto sommato anche insegnare (all’università, s’intende), magari all’estero, sì, ecco. Poi sono uscito dall’università, i miei amici sono cresciuti, ho scoperto il mondo del lavoro, e allora per un attimo “successo” è essere Gordon Gekko, magari Sergey Brin, visioni infantili non tanto distanti dal calciatore o l’astronauta. La verità è che, per come l’ho vissuta per tanto tempo, l’ambizione ha tanto a che fare con la soddisfazione personale quanto con l’affermazione sociale. Ed è questo che mi lascia perplesso.

Mettiamola in modo diverso, usiamo un’immagine tratta da un film di successo. C’è una scena in The Social Network che credo rappresenti con un’evidenza grafica assoluta il vero brivido che si cela dietro il sentimento che provo vagamente a definire ambizione. Mark Zuckerberg si trova in California ed ha preso a frequentare Shawn Parker, il fondatore (o realmente uno dei fondatori) di Napster. I due si trovano in una discoteca (devo dedurre di Palo Alto o San Francisco). Al piano di sotto, la pista, enorme, quadrangolare, con una folla di ragazzi che ballano. Qua e là concentrazioni più dense di uomini si raccolgono intorno ai tre o quattro cubi presenti nella sala, sui quali bellissime ragazze seminude ballano accentrando su di sé le attenzioni erotiche degli astanti.

Tutti ballano, bevono, si riesce ad immaginare lo slancio innaturale del ragazzo che ha deciso di esibire proprio quella sera la sua virilità ad un gruppo di amici molestando con ardore inconsueto ragazze bruttine, l’anticipazione di chi, forse, forse potrebbe essere vicino ad una conquista e tocca nervosamente il bordo del blister del preservativo pressato in tasca contro il dorso dell’iPhone, l’ubriachezza di chi è certo di conoscere i propri limiti gastrici e non si rende conto di averli superati due o tre shot fa (ed appoggia un gomito al bancone, porta la mano davanti alla bocca e attende inconsapevole quella mezzora che lo separa dal bagno del locale, se è fortunato, dal pavimento del parcheggio, più realisticamente). Zuckerberg e Parker sono al piano di sopra, una sorta di terrazza che segue il perimetro della sala lasciando vuoto il centro, una struttura piuttosto comune nei club. È più buio al piano di sopra, e ci sono i tavoli.

I due sono seduti ad un tavolo con tanti alcolici davanti e due splendide modelle accanto, ma di loro gli importa poco: spesso le due donne li interrompono chiedendo di bere di più e parlare di meno, ma loro sono lì, a parlare di Facebook, del progetto di Facebook. Al piano di sotto, la gente, una rappresentazione sin troppo ovvia, a ballare, ubriacarsi, divertirsi, vivere in massa. Al piano di sopra, loro, seduti a bere alcol di qualità, con donne bellissime accanto che vengono trascurate. Separazione. E poi parlare, parlare del progetto.

Ed è questo il punto, e sono abbastanza convinto che sia una cosa alla quale il regista ha fatto attenzione: gli attori, particolarmente quello che interpreta Zuckerberg (ma marginalmente anche l’improbabile Justin Timberlake), hanno nello sguardo l’eccitata consapevolezza che in quel preciso istante, ciò di cui stanno discutendo è più importante di tutto. Ma attenzione, non è più importante di tutto per loro, no, questo può provarlo chiunque mentre si trova a fare qualcosa di importante per la propria vita. No, più importante di tutto. Come se in quel momento, al mondo, nessuno stesse avendo una singola conversazione più importante di quella. E, d’altronde, se si pensa alla portata culturale del fenomeno Facebook, questo è abbondantemente possibile, in realtà.

Ma è l’effetto che conta, più della sua verisimiglianza. L’effetto reale che porta quell’entusiasmo, quel brivido, quel potere. Il potere di essere, realmente, in quel momento, più importante di tutte le persone che stanno ballando, bevendo, flirtando, più importante di due donne irripetibilmente belle eppure così banalmente ripetibili, ignorabili. Più importante di qualsiasi altra parola detta in qualsiasi altro luogo.

Non è un brivido per tutti, ma non è neanche un brivido così raro. Già, perché in un certo senso, è anche semplicemente il brivido degli esaltati.

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È il brivido del rappresentante degli studenti diciottenne, con i capelli lunghi e sporchi che cita Marx e se riesce Sartre e urla alle ragnatele della palestra occupata ed alla folla di quindicenni assonnati ed entusiasti l’importanza della manifestazione di domani, il blocco stradale, ci sediamo per terra a via Cavour e blocchiamo il traffico, cambiamo il mondo cominciando dall’istruzione italiana, dalla guerra in Iraq, dalla scopata che probabilmente rimedierò domani o anche stasera da quella sedicenne dai capelli neri e gli occhi azzurri come le porcellane di Delft che colleziona nonna che sta girando una canna in prima fila (la sedicenne, non nonna).

È il brivido di uno qualunque dei migliaia di migliaia di brevetti inutili che vengono registrati ogni anno, uno o due dei quali supereranno la gloria offerta da una menzione su un registro di cinquemila pagine nell’archivio di un brutto ufficio in una qualunque nazione del mondo.

Il brivido, lo riconosco, rischia di essere lo stesso. Eppure quello è diverso. Forse perché, in quel caso, può dirsi vero? Se così fosse, ci sarebbe da riconoscere che quel tipo di esaltazione è una rarità quasi irraggiungibile e che qualsiasi ambizione si prefiggesse come obiettivo quella, e solo quella, specifica sensazione si debba considerare semplicemente folle (in senso dantesco, anche, come il folle volo, ma anche in senso quotidiano, psicotico, delirante).

Vista così l’ambizione non mi piace. Ha troppo a che fare con il giudizio degli altri, anzi, con la propria personale rappresentazione del giudizio degli altri (come sempre in questi casi). Nella cultura dell’affermazione individuale dell’uomo occidentale, del greed is good, della ricerca della felicità, non sono più tanto sicuro che questa fedele compagna del mio cammino, dagli spartiti per chitarra di un assolo dei Dream Theater a quindici anni ai midstakes delle .it di oggi, stia realmente lavorando per il mio bene. È forse arrivato quel giorno, il giorno che da arrogante ginnasiale temevo come la fine del mondo, il giorno della mia rinuncia all’ambizione, del mio compromesso borghese, del mio inevitabile venire a patti con la realtà delle cose? Conoscendomi, credo proprio di no, ma non so se questo sia un bene.


[Dario] è uno scrittore, professional poker player e coach di
Pokermagia

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