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Valore Disatteso: #18 - Cambogia, Malesia, Singapore

Cose che ho lasciato in Cambogia: un iPad, ettolitri di sudore e la capacità tutta occidentale di spegnere l’interruttore del senso di colpa sulla povertà altrui. Tre piccole storie da raccontare, nel tentativo di elevarsi dall’idiozia della prima alla serietà dell’ultima.

La prima è facile da spiegare: aereo Shanghai-Siem Reap, consueta partita a poker cinese con Christian sull’iPad, sonno, risveglio all’atterraggio, prendi al volo valigia e documenti di sbarco, scendi. Ah, e dimentica l’iPad nella tasca del sedile di fronte al tuo, naturalmente. Un imbecille. Passiamo oltre.

Siem Reap è una cittadina del nord della Cambogia, famosa per l’incredibile concentrazione di templi di civiltà Kmer che impreziosiscono la giungla circostante e particolarmente per il tempio di Angkor-Wat, il più grande complesso religioso del mondo. La parentesi da guida turistica serve a spiegare il motivo che può spingere due italiani di carnagione chiara, buona volontà e discreta tenacia a vagare per quattro giorni nel sottobosco tropicale, dove la temperatura accarezza i 40° e l’umidità si adagia placida e sudaticcia sulla tacca del 90%.

L’esperienza è straordinaria: le strutture secolari in pietra bruna sono ovunque abbracciate dalle appendici di una vegetazione trionfalmente invasiva, onnipresente, invincibile, il mistero di religioni antiche e culti dimenticati intrecciato al verde vanitoso di una natura troppo bella per farle una colpa dell’umidità quasi letale. Sono, se volete immaginarli, gli scenari da romanzo d’avventura di una volta, storie di esploratori inglesi in camicia color kaki a maniche corte e guide locali con una scimmia sulla spalla. O se preferite un immaginario contemporaneo (vi giudico male per questo, sappiatelo), le location dove è stato girato il film Tomb Raider con Angelina Jolie.

Ora che ne ho reso un’idea fotografica sufficientemente accurata, torno a soffermarmi sull’aspetto che fa meno chic raccontare: faceva un caldo mostruoso, ai limiti dell’insopportabile. Non ero mai stato in una giungla prima e non esagero a dire che non conoscevo fino ad allora la sensazione che si prova quando l’intera massa del tuo corpo prova a sciogliersi in un singolo momento. Perciò, consigli per turisti: andate a Siem Reap, è meravigliosa, ma sappiate a cosa andate incontro e non dite che non ve l’avevo detto.

Terza storia. Tre giorni sono sufficienti per visitare i templi. Sono tanti, d’accordo, ma si fa in tempo a vedere i più belli, a vedere il sole sorgere ad Angkor-Wat e tramontare sui templi sulle colline, a sorvolare l’intera area a bordo di un elicottero guidato da un inglese espatriato di nome Philip Butterworth che si prepara al decollo dicendoti “Let’s rock ‘n roll” (e lo stimi profondamente per questo). Perciò al quarto giorno sei disposto ad accettare di buon grado i consigli dei concierge dell’hotel di visitare il floating village non distante dalla cittadina. Città galleggiante. In testa ti vengono in mente immagini confuse di film d’avventura, ma non sai realmente cosa aspettarti.

La realtà è che si tratta di un villaggio di pescatori che vivono su case di lamiera adagiate nell’acqua gialla di un fiume malarico. Si pesca immersi fino alla cintola in un fango maleodorante, rimestando con la rete in quella melma infestata di insetti alla ricerca di non so quali specie ittiche. In tutta onestà non riesco a raccontare bene quella giornata, fatto sta che rimarrà nella mia personale esperienza come il giorno in cui ho perso l’innocenza occidentale che ci portiamo dietro dalla nascita. Immagino capiti a tutti prima o poi, non mi ci soffermo a lungo.

Le ultime due tappe del mio viaggio asiatico sono brevi, brevissimi assaggi di paesi che avrebbero certamente meritato più attenzione: due rapide giornate malesi, due a Singapore. Kuala Lumpur, città di grattacieli e modernità occidentale sorprendentemente miste a costumi arabi che, ignoranza mia, non mi aspettavo affatto di trovare. Devo ammettere che fa un effetto insolito vedere luci al neon stile Times Square a incorniciare vie dello shopping attraversate da donne in burqa, bar dal design moderno e giovanile che tengono la lista degli alcolici a parte, fuori dal menù principale. Sali in cima alle Petronas Twin Towers, e dall’alto dell’observation deck scruti lo scenario di una città in rapidissima espansione, che tra dieci anni avrà il doppio dei grattacieli e che continuerà, col suo straordinario cosmopolitismo, a far da prova tangibile della possibilità di una coesistenza pacifica tra i popoli.

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Singapore, ultima tappa e, insieme a Tokyo, il posto che ho più fretta di tornare a visitare. E’ una città splendida, in cui un’architettura schizofrenica riesce a miscelare con sorprendente buon gusto la più sfacciata modernità con il fascino senza tempo dello stile coloniale britannico. Accanto al Marina Bay Sands, tre grattacieli gemelli uniti da un tetto piatto trasformato nella più spettacolare piscina del mondo (o, come a noi piaceva chiamarlo, il nostro albergo) trovi il Fullerton Hotel, un palazzone bianco inglese che un tempo era l’ufficio postale della città e che appare in Al limite estremo di Joseph Conrad. Trovi le strade larghe dell’affascinante circuito cittadino del Gran Premio di Formula Uno, ma le usi per farti portare dal tassista al Raffles’ Hotel, un vero e proprio tempio del colonialismo britannico in Asia.

Nel legno scuro del Long Bar al secondo piano puoi bere un Singapore Sling nel luogo in cui è stato inventato, dove lo beveva Hemingway, e sentirti davvero un avventuriero negli anni Dieci o Venti del ‘900, uno di quei giovani di cui qualche anno dopo, a Londra o a Parigi, si sarebbe detto “ha negli occhi le storie di un uomo che ha viaggiato a lungo per mare”.

E alla fine è questo che ti rimane di Singapore, ed è davvero bello che per me coincida con l’ultimo ricordo da portare a casa dalla mia esperienza AllinAround, l’immagine un po’ mitica e un po’ romanzata di far parte di quella schiera multietnica di viaggiatori che il destino ha fatto attraccare in uno dei porti più magici del mondo, così lontano da casa, in un luogo così arbitrario, esotico, casuale. Un non-luogo che è tutto il mondo allo stesso momento, un po’ Inghilterra, un po’ Cina, un po’ Olanda, un po’ America, un po’ Malesia: Singapore, il porto dei viaggiatori.

[Dario] è uno scrittore, professional poker player e coach di Pokermagia

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