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Valore Disatteso: #17 - Cartoline dalla Cina

Lo dico subito, per togliermi il pensiero: Pechino è terribilmente brutta. Passi cinque giorni in un albergo adorabile ricavato da una villa tradizionale (le siheyuan) in un piccolo hutong, circondato dai gatti e le attenzioni dello staff, e malgrado tutto al momento di partire prometti: “A meno di avere un’ottima, ottima ragione, non tornerò più in questa città”.

Sostanzialmente è una versione più sporca e caotica delle Malebolge infernali di Dante, con folli guidatori di risciò che sfrecciano contromano tra le macchine strombazzanti di clacson a tutte le ore, mentre un cielo giallo ittero soffoca di smog le brutture di un’architettura tristemente sovietica, grigia, pesante. Nelle vie tradizionali degli hutong frammenti della Cina antica, tenuti in stato di vita artificiale a beneficio dei turisti, sgomitano a fatica tra l’ingombro della Cina vecchia, perdono forza, nobiltà, si riciclano al ruolo prevedibile di cineserie.

C’è poco di moderno, in città, malgrado una piccola costellazione di grattacieli sparsi senza criterio nella più grande area urbana del pianeta (Pechino, da sola, è estesa quanto la Slovenia), giusto qualche isolato capolavoro contemporaneo come l’Olympic Village (con lo stadio “Nido d’Uccello” dei record di Bolt). E poi c’è la storia, la Città Proibita, un luogo in cui il fascino incantato delle antiche dinastie rimbomba negli spazi enormi, “disumani”, come un pallone in una palestra vuota, che però non è vuota ma piena di un miliardo di cinesi che spingono, guardano, domandano, si pressano contro lo sfarzo dorato dei saloni regali. Ti viene la nostalgia del palazzo reale di Seul, più piccolo, “domestico”, verde.

Non dimenticherò mai Pechino, perchè nei suoi dintorni ho vissuto una delle esperienze più straordinarie della mia vita. I turisti in genere visitano la Grande Muraglia nei pressi di Badaling: ci si arriva in autostrada, è stato restaurato e lustrato tutto per bene nel ‘57 e ci hanno pure fatto la maratona alle Olimpiadi. Noi no. Noi diamo retta a guide americane da viaggiatori spavaldi e partiamo per Jiankou, il tratto più selvaggio, malridotto e scenografico dell’intera muraglia. Niente restauri qua, ma un muro cadente testardamente arrampicato su una montagna verde sprofondata in un mare di nebbia degna del miglior Caspar David Friedrich.

Tutto molto bello a sentirlo, ma per raggiungere questo spettacolo meraviglioso occorre un’estenuante e realmente molto pericolosa camminata di oltre tre ore attraverso boschi e montagne, con diversi passaggi di vera e propria arrampicata. Ottima idea sperimentare uno sport di cui si ha esperienza nulla (il free climbing) senza guida, senza protezioni e a cospicuo rischio della propria vita. Davvero un’ottima idea.

Il risultato è un’odissea fatta di sentieri, inquietanti nastri di seta gialla ad indicare la via, la ricerca di impronte di altri avventurieri per orientarsi (giuro), banane e bustine di zucchero e, finalmente, alcuni dei panorami più straordinari che possa capitare di osservare. Ripenso a quel giorno surreale e mi viene in mente una generosa messe di frasi fatte su come i viaggi cambiano la vita, su come fare esperienze sulla nostra pelle cambi la nostra percezione del mondo. Ve le risparmio, ma qualcosa quel giorno l’ha significata, in un modo o nell’altro.

Arrivi a Shanghai e, almeno un pochino, riesci a far pace con l’idea che i cinesi conquistino il mondo. Siamo onesti, finchè eri a Pechino immaginavi distopie sul futuro del pianeta nelle mani del popolo che aveva creato quella capitale così invivibile. Shanghai, “la perla d’Oriente” ti accoglie con la sua modernità onnipresente, maestosa ed elettrica e sei disposto a cambiare idea. Non ha nulla, in effetti, della città violenta spazzata da venti di morte che ricordavo da “La condizione umana” di Malraux, è una bellissima confusione di grattacieli che la notte sorprende in un trionfo di luci tipicamente (ormai l’ho capito) orientali.

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Una città multietnica (nei limiti di quanto si riesca a fare in Cina), colorata, persino pulita, ma più di tutto nuova. Il Bund è un “lungofiume” all’occidentale, palcoscenico elegante sul quale si adagia compiaciuto uno degli skyline più incredibili del mondo, tanto appariscente che è impossibile fotografarlo, diventa immediatamente una cartolina, si mette in posa e sorride. “Qui ci tornerei volentieri, anzi, ci tornerò” pensi, e sei già oltre le nuvole in un tubo alato della China Eastern che fa da intermezzo a uno dei più drastici cambi di scenografia che si possano mai immaginare...

[Dario] è uno scrittore, professional poker player e coach di Pokermagia

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