Gherardo Crespi è stato uno dei primi a scoprire ed importare in Italia il texas hold’em e tutte le varianti del poker americano. Il player milanese ha inoltre sfiorato il braccialetto più ambito nel lontano 1996, quando è andato vicinissimo alla vittoria alle World Series arrivando secondo, dopo aver dominato il final table nell’evento $1.500 Hold’em Pot Limit, battuto in heads-up da Al Krux.
Curiosità: quel primo maggio al Binions di Las Vegas, tra i 27 a premio, c’erano 25 statunitensi e 2 italiani: Crespi era in the money, in compagnia di Cesare Poggi (13esimo). Al terzo posto un campione inossidabile come John Anthony “Miami” Cernuto. Un anno prima Valter Farina aveva conquistato l’iride nel Seven Card Stud ma per attendere il primo braccialetto nell’hold’em dovremo aspettare 20 anni con Max Pescatori.
Crespi ne ha di storie da raccontare (ha più di 30 piazzamenti in the money nella sua carriera). Tutto parte da un luogo di culto per i pokeristi: il Mayfair Club di New York, teatro di romantiche e cruenti sfide di cash game high stakes, con coloro che oggi affollano la Hall of Fame ed hanno scritto la storia recente del poker negli Stati Uniti.
Domanda banale ma d’obbligo: come è venuto a contatto con il texas hold’em?
“Nel 1985 - racconta Crespi - ero a New York dopo aver fatto la traversata dell’Atlantico con una barca a vela. Il caso ha voluto che andassi a vivere nella Grande Mela per 4 anni. Lì iniziai a scoprire l’hold’em”.
In che occasione sei entrato a contatto con quel mondo?
“In Italia ero un player di backgammon. Arrivato a New York ho iniziato a frequentare il circolo privato “Coterie” dove si giocava anche a gin rummy. Là ho fatto amicizia con Erik Seidel che al tempo era considerato uno dei giocatori più forti al mondo di backgammon. Se nel nostro paese mi facevo valere perché gli altri giocavano tutti male, negli USA dovevo solo imparare. Fatto sta che si giocava anche a texas hold’em. Erik mi ha portato subito al Mayfair Club”.
Che rapporto avevi con Seidel?
“Eravamo soci nel backgammon e giocavo ad hold’em ogni giorno contro di lui ed altri giocatori famosi cresciuti nel circolo come Howard Lederer e Dan Harrington. A parte talenti formidabili come loro che vincevano sempre, vi erano per fortuna anche molti players scarsi...".
Stiamo parlando di uno dei luoghi più famosi negli anni ’80 per quanto riguarda il cash game.
“Il club era nato come circolo per il bridge ma nel 1985 si è iniziato a giocare forte. Seidel era considerato uno dei più abili già allora”.
Che partite si giocavano al Mayfair?
“Quella principale era 25$/50$ No Limit con stack iniziale di 1.000$. Un po’ inusuale: si partiva con 20 big blinds. Tutti iniziavano in quel modo poi ricaricavano. C’era inoltre quello che veniva chiamato “baby game” ai limiti 10$/20$. Dopo qualche anno hanno alzato decisamente l’asticella con bui da 150$/300$ Limit. Avevano cambiato perché nel No Limit la partita era finita: vincevano sempre gli stessi”.
Gli sceneggiatori di Rounders si sono ispirati al Mayfair Club secondo te?
“Assolutamente no. Un ambiente completamente diverso, nulla a che fare con l’atmosfera malavitosa che si respirava nel film. Al Mayfair non c’era un personaggio come Teddy KGB che gestiva il circolo: era un ambiente sano. Si giocava non solo a poker ma anche a bridge e backgammon. In quel periodo il club aveva subito anche tre rapine”.
Seidel faceva l’agente di borsa e si è dato al poker solo dopo essere stato licenziato a causa della crisi a fine anni ‘80?
“Lavorava a Wall Street nel campo delle opzioni ma solo part-time perché faceva anche il professionista di backgammon, il più forte. Erik è senza dubbio la persona che mi piace di più nel mondo del poker anche se nel mio primo Main Event, nel 1987, a Las Vegas, mi ha tirato un colpo basso ”.
Cosa ha combinato Seidel?
“Mi ha eliminato con una piccola scorrettezza. Eravamo seduti vicino: non ricordo bene la serie di rilanci preflop ma io avevo AK. Il flop era A-X-X, con progetto di colore a fiori. Avevo top pair top kicker. Io faccio una puntata e lui mi rilancia e alza una carta e mi fa vedere a . A quel punto ho pensato che avesse una mano tipo a q . Decido di andare fino al river e lui mi elimina con una coppia d’assi. In quel torneo arriverà ad un passo dalla vittoria, eliminato da Johnny Chan a causa della mano ripresa poi da The Rounders”.
Oltre a lui chi erano i regulars del Mayfair?
“Howard Lederer faceva presenza fissa, Dan Harrington giocava spesso lì, Al Krux che mi ha battuto alle WSOP ma ce ne sono molti famosi. Jason Lester era formidabile soprattutto nel gin rummy. Elencarli tutti sarebbe un’impresa, ho un ricordo romantico di quel periodo, stava nascendo una cultura diversa nel poker. Le partite più importanti però erano a Las Vegas e Los Angeles durante i grandi eventi”.
Chip Reese è mai venuto a New York?
“Un paio di volte ma io l’ho conosciuto a Las Vegas, durante un Main Event. Un altro fenomeno era Stu Ungar, giocava in modo diverso da tutti gli altri. A gin rummy nessuno lo voleva affrontare, era come regalargli in automatico i tuoi soldi appena ti sedevi di fronte a lui. Era un gambler allo stato puro ma nonostante quello, senza il vizio della droga, sarebbe stato il più forte per molti anni ancora”.
Con Brunson e Ungar non si scherzava al tempo…
“Pensate che le cifre più alte se le giocavano né a poker, né a Gin rummy, bensì sul campo da golf: ad ogni colpo scommettevano somme pazzesche e il più pollo di tutti sul green era proprio Stu Ungar”.
Raccontaci la tua mancata vittoria alle WSOP. Hai anche un terzo posto in un evento di Pot Limit Omaha. Per due volte sei andato vicinissimo al braccialetto.
“Erano tornei con meno di 300 giocatori, nulla di paragonabile rispetto ad oggi. Ho fatto un bel tavolo finale ma l’heads-up contro Al Krux è stato un disastro. Partivo in vantaggio con il triplo dello stack ma ho giocato malissimo. Ero molto insoddisfatto della mia performance. La differenza in termini monetari era minima perché avevamo fatto un deal. Giocavamo per il braccialetto ma non gli avevo dato, stupidamente, importanza. Anche nel campionato europeo a Londra ho commesso gli stessi errori e sono arrivato secondo. Ho ancora diversi rimpianti in questi due tornei”.
Quando hai importato il texas hold’em nel nostro paese?
“Nel 1989 sono ritornato e nel 1991 ho introdotto l’hold’em in un circolo privato di Milano, sia no limit che limit. Successivamente gli altri giochi come 7 Stud, Pot Omaha etc. L’impatto è stato positivo, piaceva molto ma riguardava un numero ristretto di persone essendo un club”.
Immaginavi una popolarità simile per il texas hold’em?
“Si, quando è partito su internet era evidente che ci sarebbe stato un boom. Giravano molti soldi, era inevitabile”.
Giochi online?
“Si faccio delle piccole partite su internet sulle piattaforme AAMS e devo dire che il livello di gioco è molto duro e difficile, almeno per me. I grinders italiani non ti regalano nulla. Sono giocatori molto competenti e le partite sono difficili da affrontare. Una volta c’era pochissima informazione, c’era solo un libro come Super System di Doyle Brunson. Oramai, qualsiasi ragazzo è informato e preparato grazie ai forum. Online devi essere un fuoriclasse ed avere una marcia in più per vincere. La festa è finita”.